Diciotto giugno, un ricordo che spunta alla mente, era il mio ingresso nel mondo del lavoro!
E allora ecco qua, a mo’ di Amarcord, ma sì, attacco anche in questo spazio web alcuni stralci di quanto tempo fa pubblicai nel mio blog personale!
Nel Settantanove, diciotto giugno. Un ricordo
Ero sempre stato, come si suol dire, un praticone. Uno che, appassionato sì dell’elettronica, delle necessarie basi matematiche ne apprezzava solo il minimo indispensabile. Il calcolo della polarizzazione di base. L’amplificazione di uno stadio ad emettitore comune. La retroazione (un po’ pallosa ma come poterla ignorare?).
Ma poi, sperimentare! Erano gli anni in cui dalla paghetta settimanale sfumavano i quattrini, non per fumarmi le bionde come facevano i coetanei ma per comprar transistor, condensatori e resistenze; seppur fumati anch’essi periodicamente in azzardati esperimenti o per casuali cortocircuiti: era la mia sfiga tecnologica degli anni settanta…
E’ nel Settantanove che arriva la svolta. E che cosa accade in quella data che ho messo a titolo del mio ricordo? Bè; a dispetto di una mia famosa frase che pronunciai a un compagno di studi dell’università che frequentava Robotica, “Ah, non sarò mai un softman!”, già dall’anno prima il microprocessore (ovvero, per chi non lo sapesse, il “cuore” anche dei moderni microcomputer) aveva iniziato a penetrare nella mia fantasia – e sempre per motivi musicali. Frullavano per la testa progetti di sequencers, generatori automatici di melodia, interfacciamenti con la tastiera a 49 tasti che comprai in quel tal negozietto che stava a Porta Ticinese, e poi le schede a circuito stampato su cui ci sperimentavo, ancora una volta, l’output con convertitore digitale/analogico allora costato un occhio della testa.
Era la premessa che spinse mia madre, un giorno, a mostrarmi quasi per scherzo un trafiletto negli annunci economici del giornale, “Guarda, cercano proprio uno come te!” e in effetti l’idea non era male: era proprio un impiego come programmatore di software per microprocessori, era una piccola ditta in cui avrei potuto “farmi le ossa” ed essendo in un campo appena agli inizi non era certo prevista la “precedente esperienza”. E se proprio avessi voluto, avrei comunque potuto continuare gli studi.
Arriva finalmente, quel 18 giugno del 1979. Il colloquio con i miei futuri “kapi”. Quattro stanze all’ammezzato di un palazzo (neanche poi tanto distante da casa, lo raggiungevo pedalando in bicicletta, e ricordo anche il record che feci un’estate, di percorrenza di quei tre-quattro chilometri in 8 minuti, complice la città che per il caldo era spopolata!), la ditta a contratto artigiani, i primi progetti di macchine per il collaudo automatico di sistemi telefonici, i due capi uno alto e con la barba quasi da filosofo greco che gli dava un’aria assai intellettuale, e l’altro burbero e che faceva sempre domande – all’inizio pensavo fosse per mettermi alla prova, poi capii che proprio non le sapeva, quelle cose, e semplicemente chiedeva per avere spiegazioni.
E io? Visto e preso, come si suol dire, e proprio la mia esperienza di smanettone arrivò a convincerli; e ammetto di esser stato quasi una bestia rara, nell’universo dei giovani in affannosa ricerca del loro primo impiego… I 6 mesi di prova e poi a tempo indeterminato… la ditta nel frattempo si trasferiva, il percorso sul sellino si allungava ma l’allora giovane sportivo non se ne curava, facendo il percorso da un capo all’altro della città in mezz’ora mentre col bus avrebbe impiegato di più. E le fatiche del programmare, quasi un’immersione nella personalità della macchina di cui io ero allo stesso tempo creatore e organismo dipendente, quasi una simbiosi fantascientifica, da androide insomma.
Il commiato avvenne 5 anni dopo, complice il mio fatale innamoramento per la Toscana… il trasferimento a Firenze, e di nuovo softwarista per microprocessori ma per 7 mesi soli: poiché il destino mi mise ancora, me comunicatore, nei binari giusti per nuove esperienze, questa volta nell’allora nascente mondo della telematica.